Negli ultimi anni, l’Europa si trova di fronte a un dilemma sempre più marcato: conciliare i principi di protezione umanitaria e solidarietà internazionale con le spinte politiche verso un rafforzamento dei controlli e l’esternalizzazione delle frontiere.

Dopo il contestato Migration and Economic Development Partnership tra Regno Unito e Ruanda, il concetto di off-shore asylum processing, ossia il trattamento delle domande d’asilo al di fuori del territorio nazionale, ha iniziato a farsi strada anche nei dibattiti continentali.

Il modello britannico: esternalizzare per dissuadere

Il Regno Unito ha scelto un approccio drastico: trasferire i richiedenti asilo in un Paese terzo, in attesa della valutazione della loro domanda.

L’accordo con Kigali prevede che i migranti arrivati irregolarmente sulle coste britanniche possano essere trasferiti in Ruanda, dove verrà esaminata la richiesta di protezione.

La Corte Suprema del Regno Unito, tuttavia, ha dichiarato il piano incompatibile con il diritto internazionale per il rischio concreto di violazioni del principio di non-refoulement (divieto di respingimento verso Paesi non sicuri).

Nonostante ciò, Londra ha insistito, modificando la normativa per qualificare il Ruanda come Paese sicuro per legge, aprendo così la strada alla riattivazione del piano nel 2025.

L’effetto domino in Europa: Danimarca, Austria, Italia

Diversi Stati membri dell’UE stanno osservando con interesse, o preoccupazione, l’esperimento britannico.

  • Danimarca: già nel 2021 aveva approvato una legge che consente di trasferire i richiedenti asilo verso Paesi terzi, purché sia garantita una protezione effettiva. Anche in questo caso, i negoziati con il Ruanda non sono mai sfociati in un accordo operativo, ma il principio resta nel dibattito politico.
  • Austria: Vienna ha chiesto alla Commissione UE di autorizzare accordi simili a livello europeo, sostenendo che solo la deterrenza può ridurre gli arrivi irregolari.
  • Italia: con il decreto-legge 133/2023, è stato introdotto un meccanismo per l’istituzione di centri di trattenimento e identificazione in Paesi terzi, in linea con l’accordo firmato con l’Albania per il trattamento temporaneo dei migranti soccorsi in mare da navi italiane.

Si tratta di un modello ibrido, nel quale il richiedente asilo resta formalmente sotto giurisdizione italiana, ma fisicamente detenuto in territorio straniero, un esperimento che richiama molto da vicino la logica britannica.

Il cuore del problema giuridico è proprio la giurisdizione extraterritoriale.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha chiarito, in più occasioni (tra cui Hirsi Jamaa c. Italia, 2012), che uno Stato non può eludere i propri obblighi in materia di diritti umani semplicemente spostando le operazioni di asilo fuori dai propri confini.

Il richiedente, se di fatto sottoposto al controllo di uno Stato, ricade comunque sotto la sua giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione EDU.

Ne deriva che qualsiasi forma di off-shore processing deve garantire accesso effettivo a ricorsi, assistenza legale e tutela giudiziaria.

Il rischio di una Europa a geometria variabile

Il nuovo Patto su migrazione e asilo, che entrerà in vigore nel 2026, mira a armonizzare le procedure di frontiera, ma lascia margini agli Stati per accordi bilaterali o partenariati esterni.

Questa flessibilità, se da un lato risponde alle diverse pressioni migratorie, dall’altro rischia di generare una frammentazione delle garanzie, con Paesi che spingono verso politiche di contenimento più aggressive e altri che mantengono approcci più umanitari.

Conclusione: verso quale modello europeo di accoglienza?

L’Europa si trova oggi di fronte a un bivio storico:

  • seguire la strada dell’esternalizzazione e della deterrenza, come Regno Unito e Italia;
  • oppure riaffermare il principio che la protezione internazionale è un dovere politico e giuridico non delegabile.

In assenza di una posizione comune e vincolante, il rischio è quello di una guerra dei modelli che finirà per compromettere la coerenza del sistema europeo di asilo e la stessa tenuta del principio di solidarietà sancito dall’art. 80 TFUE.

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